Padiglione VediTu – Veditu Pavilion

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Abbiamo atteso un po’ a pubblicare questo articolo, visto che vi troverete un “padiglione” virtuale del nostro collettivo, che avevamo predisposto in vista della Biennale di Venezia. Il successo della campagna di Anga sulla presenza del Padiglione Israeliano, ci ha convinto. Troverete quindi una sintesi dei lavori degli ultimi anni, una galleria non completa ma ampia del lavoro fatto.
Qui di seguito invece un testo che non c’entra nulla, se non per il fatto di sistematizzare quanto abbiamo scritto qua e la’ sul tema dell’arte politica.
E’ un po’ lungo, per cui se volete saltarlo andate direttamente alla

galleria

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    L’arte politica al tempo del Mercato

Avvertenze
Il testo che segue non ha interesse ad essere onnicomprensivo, né proporrà altro che qualche spunto. Esistono molti esempi su cui si poggia l’ipotesi di fondo rispetto all’arte politica al tempo del Mercato, ma ognuno di noi avrà in mente delle eccezioni. Vanno bene.
In tutto il testo non c’è un solo artista citato. Questo perché, essendo una sorta di ricapitolo ordinato di suggestioni che trovate qua e là nel sito, avremmo dovuto ripeterci. Ciò da cui siamo partiti, e anche le contraddizioni, li trovate nei post su ciò che abbiamo visto e nelle interviste che abbiamo fatto.

Verso Venezia

Assiomi
1) Di frequente etica e morale sono due parole usate come sinonimi e d’altra parte non è strano, tenendo conto che, se si apre un vocabolario, entrambe sono definite come “modo d’agire, costume, usanza, abitudine, tradizione, istituzione” o giù di lì. Però sono parole con molte sfumature, complesse, e proseguendo con la lettura del vocabolario cercheremo di spiegare dove si annida la differenza che noi intravediamo e perché ci interessa.
Ad esempio, ci sono molti casi in cui potremo scambiarle: l’Etica kantiana o la Morale kantiana possono intendere entrambe la teoria del giusto agire nel sistema filosofico di Kant. Ma la morale della favola può diventare l’etica della favola? Si può fare la morale, ma si può fare l’etica?
Di molti esempi potremmo riempire la pagina, a partire dal diverso etimo fino a molti diversi utilizzi, ma ve lo risparmiamo perché comunque si trovano facilmente in testi accessibili. Quello che noi sosteniamo è che la differenza tra le due parole, ciò che cambia, è che per la morale possiamo intendere un giudizio di valore su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato (a fare gli chic potremmo dire assiologico, ma lasciamo stare), per l’etica si tratta invece di definire cosa è il giusto e come indirizzare l’agire verso il giusto (buttiamo là ontologico). È chiaro che è una semplificazione, ad esempio giusto è il termine più neutro che c’è venuto, ma sapete meglio di noi che il fine dell’etica, a seconda del sistema di pensiero, potrebbe essere l’utile, la felicità, il piacere ecc.. Alcuni autori, pur distinguendo le due parole le intrecciano e le confondono, ma grosso modo teniamola buona così.

2) La fine della storia è uno dei concetti-chiave dell’analisi del politologo Francis Fukuyama: secondo questa tesi, il processo di evoluzione sociale, economica e politica dell’umanità avrebbe raggiunto il suo apice alla fine del XX secolo, snodo epocale a partire dal quale si starebbe aprendo una fase finale di conclusione della storia in quanto tale. Pubblicato significativamente nel 1989, ci racconta che, falliti i cambiamenti rivoluzionari, il dominio del Mercato è diventato incontrastato, ed è piacevole accettarlo. Non è una posizione granché innovativa, visto che ogni storia ha avuto il suo cantore (già a Roma qualcuno delineava l’Impero come il migliore dei mondi possibili).
Nei 30 anni successivi è successo di tutto, grandi movimenti internazionali mossi principalmente dai giovani con l’idea che “Un altro mondo è possibile”, il terrorismo, sconfitte e vittorie che stavano a smentire la profezia di Fukuyama. A noi interessa che, a livello culturale e popolare, mai come oggi l’idea di un necessario cambiamento del Mercato è relegata a gruppi minoritari, mentre le critiche maggiori che vediamo tendono a riforme parziali, etiche o morali che siano, di equità, ma senza entrare al nocciolo duro. Quando un’intera classe dirigente deve fare le cose di nascosto per non irritare il Mercato, è chiaro dove è passata la sovranità. L’assenza di movimenti organizzati per il cambiamento porta alla parcellizzazione solitaria della massa, come disse in tempo di covid Giorgio Agamben riflettendo su Elias Canetti. Ovvero il Mercato come orizzonte, la politica che si pone al meglio come timida riformatrice, tendono a spezzettare in rivoli, che a volte confluiscono a volte no, la possibile critica.
Sia chiaro che non è la nostra un’analisi nostalgica di tempi andati, l’altra lezione novecentesca è che non bisogna per forza ridurre a uno le differenze, non è necessario ingabbiare la storia e il mondo in una visione rigidamente dialettica, ma si può accettare di ragionare, appunto, di molteplicità. Questo disamore per le gerarchie è il motivo per cui siamo un collettivo e cerchiamo più possibile di guardare al Mercato e all’arte in maniera discreta, non utilizzando se possibile (parte di questo tentativo è accettare la contraddizione) categorie assolute: all’Altro preferiamo gli altri.

balcone con piante

3) Nonostante tutto ciò è diffusissima la volontà di proporre un’arte politica. Non arriviamo a dire mai come oggi, ma se ci s’aggira nei templi del Mercato, le fiere (qua potete vedere i nostri articoli su Art Verona e Artissima 2024) ci s’accorgerà di quante gallerie e quanti artisti rivendicano una posizione politica. Non diciamo quindi qualche galleria indipendente o qualche forma di protesta a cui aderisce un’artista, ma proprio dove il Mercato scintilla più glamour prende piede l’arte impegnata.
Per autodichiarazione, perché la forma che esprime politicità, nelle intenzioni dell’autore, è spesso così labilmente ancorata al soggetto che tratta che è difficile coglierla. Molti s’interrogano su come l’arte contemporanea, laddove politica, possa essere interpretata proprio poiché l’assunto teorico è, citando ArtTribune (Spazi di apparenza. Un’opera d’arte può essere politica anche se non sembra, 29 marzo 2024): “In generale, anzi, possiamo dire che oggi più un’opera sembra politica, meno lo è”. Per cui bisogna che sia il contesto a chiarirlo: il testo di accompagnamento, lo spazio, il titolo dell’opera singola o della mostra nel suo complesso ( ad esempio Judith Butler a Palazzo Grassi parlava di spazio di apparenza, citando Hanna Harendt, come luogo dedicato a un’esperienza collettiva).
Le tematiche prevalenti di quest’impegno sono certamente quelle ambientali, i diritti delle persone, una critica alla mercificazione della vita. A testimoniare quanto abbiamo scritto in precedenza, se uno ci fa caso è scomparsa la questione del lavoro e dello sfruttamento, creando questi cortocircuiti divertenti in cui il catalogo di una fiera può iniziare condannando la mercificazione dell’arte.

4) Nel suo Tractatus logico-philosophicus Wittgenstein afferma audacemente (senza argomentare oltre o quantomeno chiarire) che «Etica ed estetica sono tutt’uno». E non è l’unico a pensarla così. Tendenzialmente, visto che ogni tanto ci siamo occupati di oriente, anche nel confucianesimo etica ed estetica sono estremamente legate. Ad esempio nel Dialoghi, Confucio insiste sull’importanza etica del «conseguimento dell’armonia» e sul fatto che, bene o male, una persona buona promuove anche la bellezza.
Ed effettivamente nell’assenza della politica che punta al cambiamento, ad un mondo diverso, la politicità di una parte consistente di quello che vediamo s’aggrappa a quello che è più innato, risultando quindi da una qualche scelta o tensione etica. Ma se in un sistema ideale l’agire politico è connesso strettamente con l’etica, quest’ultima, sosteneva Norberto Bobbio, ne è una parte, se non altro perché una scelta politica deve passare attraverso una condivisione di molti, mentre una scelta etica può essere anche individuale. Ed è bene sia così, perché uno Stato etico, inteso, citando Hegel, come “sostanza etica consapevole di sé”, rende la politica fonte unica e incontestabile del giusto e quando qualcosa di simile è apparso ha sempre assomigliato molto a una dittatura. La distinzione tra etica e politica che abbiamo tratteggiato sulla scia di Bobbio diventa evidente e dichiarata ad ogni conferenza, post, dichiarazione in cui si sostiene (e questo viene fatto ossessivamente), che per “cambiare il mondo bisogna prima cambiare sé stessi “.

Ipotesi

a) È di certo una buona cosa che, nonostante il monologo auto elogiativo del Mercato, l’arte senta che non tutto va bene e lo segnali, in qualunque forma o contesto ciò si esprima. Però, come sottolineato spesso in questo sito, non partiamo da un territorio di libertà, ma da un condizionamento della società storica nella quale ci troviamo a vivere, nel nostro caso dal Mercato, degli appetiti che muovono le nostre azioni e i giudizi antropologici che da tali appetiti derivano. Ed è un condizionamento intimo, attraverso l’insediarsi in noi delle istituzioni che la società (il Mercato) ci fornisce per la soddisfazione delle tendenze istintive dei corpi individuali. In tal senso una visione prettamente etica non può che essere profondamente influenzata dal mondo in cui si sta vivendo, secondo noi, per quanto detto della necessaria condivisione, ancor di più di una prospettiva politica. Ed è per questo che, pur essendo una posizione forte in quanto l’etica non è chiamata a mettersi in discussione, non stiamo qua nell’ambito del ragionamento filosofico in cui si discute di cosa intendiamo per etica, rischia di settorializzarsi, di insistere su una sola specifica ignorando quel che capita attorno. È anche vero però che, come abbiamo visto nel primo paragrafo, questo tipo d’impostazione che dà un giudizio di valore su ciò che è giusto o sbagliato si chiama morale. Difatti l’impressione che abbiamo è che solo l’essere alla moda faccia prediligere la parola etica a morale, poiché non c’è davvero niente di male nella seconda ed anzi sarebbe senz’altro più appropriata. Ma un’arte morale, come qualunque altra attività umana così definibile, col dare patenti di bontà e immoralità tenderà a parlare soprattutto ai buoni, ai simili che condividono il giudizio dell’autore. Mettiamo il caso che ci disinteressassimo al cambiamento climatico, come saremmo accolti ad una mostra di artisti impegnati sul tema ambientale? D’altra parte, sarebbe impossibile stabilire ciò che è morale senza sentirsi nel giusto, migliori di quell* che fanno una scelta diversa. Difatti, e questo si accompagna al punto 3), possiamo certamente dire che, rispetto alle forme più tradizionali, alla contemporaneità manca la vocazione al proselitismo. Il fatto che, tolti i grandi eventi, molte mostre di arte contemporanea non brillino per partecipazione, non è solo dovuto a fattori inerenti il pubblico, alla difficoltà, per mille motivi, di relazionarsi con le forme d’arte attuali, ma anche alla contraddizione tra il piacere di far parte di una mostra con molti visitatori e lo scarso interesse ad avere persone che non siano moralmente/eticamente già schierate. L’opera non è quella cosa che sostiene una causa politica, ma il terminale di un percorso di convincimento che vede, nella partecipazione a una mostra, la testimonianza di una decisione già presa. D’altra parte quando si parla di morale c’è il rischio che, senza volere ed anche partendo da posizioni assolutamente liberali e moderne, si possa cadere nel moralismo, il che spiegherebbe l’impressione di tristezza che trasmettono alcuni lavori (e le feste che accompagnano alcune inaugurazioni).

alberi al tramonto

b) Dice in un altro testo (L’alleanza dei corpi) Judith Butler : «Nessun corpo instaura singolarmente lo spazio dell’apparizione, perché quest’azione, questo esercizio performativo, accade solo “tra” corpi, in uno spazio che costituisce il vuoto tra il mio corpo e quello dell’altro. Di conseguenza, il mio corpo non agisce mai da solo quando agisce politicamente.” Tradotto poi nella necessità di uno spazio pubblico ben definito, detto spazio di apparenza, in cui solo può esistere l’esperienza artistica, che gioco forza, nonostante tutta l’arte concettuale che vogliamo, passa attraverso il coinvolgimento del corpo. L’opera d’arte, per poter avere una sua portata politica, deve avere quindi uno specifico contesto, con sue regole, o non-regole precise. In questa prospettiva, però, si ritorna alla difficoltà contraddittoria della partecipazione, perché la sfera pubblica non si crea a partire dall’azione libera, eguale e reciproca di una pluralità, bensì, ad un livello più originario, dalle sue stesse frontiere: senza un di fuori, formato da coloro che mancano della possibilità di apparire, non si potrebbe infatti identificare un di dentro. Lo sforzo includente, che necessita una situazione di questo tipo, per rendere i confini permeabili alla possibilità di partecipazione, risulta, come è evidente da quanto detto finora, particolarmente complicato in una opzione etica del messaggio politico. Nel recente passato tutto un modello di pensiero, alternativo a quello dei grandi sistemi dell’arte, ha tentato di costruire esperienze, se non uguali, mosse da idee che fanno pensare allo spazio immaginato dalla Butler.
Ad esempio parliamo di Performance studies e per farla facile non entriamo nel dibattito tra di loro, ma prendiamo le teorie di Richard Shechner (anni ‘80/90) , uno dei fondatori, se non altro perché ritiene che esista, nel gioco nella performance e nel rito, un insieme di regole destinate a determinare un altro tempo, un altro spazio e un altro fine, tali da rendere inderogabile la distinzione tra queste pratiche e la cosiddetta “vita reale”. In particolare, anche qui deve esserci una struttura formale, con un inizio, uno svolgimento ed una fine; si usano, anche nella performance più sperimentali e nei riti più antichi, gesti “recuperati” da routine, abitudini, elementi culturali consolidati dalla comunità che vi partecipa; lo spazio, nei riti come nelle performance, oltre ad essere diverso può diventare separato.
Secondo ed ultimo esempio (vi risparmiano happening e Zone temporaneamente liberate) la deriva situazionista (anni 60), ovvero una tecnica di esplorazione che consiste nel muoversi attraverso gli ambienti urbani senza una direzione predefinita, permettendo al paesaggio e alle situazioni incontrate di guidare l’esperienza. Anch’essa con le sue regole, in quanto altrimenti si perde lo scopo, che è fuoriuscire dalla mediazione spettacolare del Mercato e vivere esperienze direttamente con corpo e percezioni proprie. La creazione di spazi temporanei ed esperienze fugaci, che esistono solo per la durata dell’esplorazione, prevede la loro separatezza dal quotidiano, ed in questo caso la è necessario che ad andare alla deriva sia un gruppo di persone ristretto per un periodo di tempo limitato.
Questi 3 casi, di tempi diversi e con pensieri di base diversi, pur in una lettura semplificata in cui non mettiamo in evidenza le differenze, rappresentano modalità di critica politica decentrata rispetto alle forme più istituzionali, ma certo nel coinvolgimento del corpo e nel recupero di forme comunitarie che permettano l’agire artistico attraverso un sistema di regole, come nel rito, da Debord a Butler si delinea una possibilità d’azione politica forse interessante per la contemporaneità. In fondo per Shechner le performance erano essenzialmente modelli di società utopiche.

alberi - disegno

c) Quando si tratta di una rivendicazione politica, invece, si cambia paradigma e si creano eccezioni a tutto quanto sostenuto nel punto a). Ad esempio, la vicenda di ANGA, Art Not Genocide Alliance. La questione è nota e si tratta di una manifestazione di artist* che hanno chiesto l’esclusione del padiglione d’Israele dalla Biennale di Venezia, condannando il genocidio che quello Stato sta compiendo nei confronti dei Palestinesi. Partendo dalla considerazione che “L‘arte non esiste sottovuoto (sicuramente non in una „bolla“) e non può trascendere la realtà”, il loro manifesto fa una descrizione di quanto avviene in Palestina e richiede l’esclusione del Padiglione attraverso una vera e propria analisi politica, in cui nemmeno una volta compare la parola “etica”. All’appello rispondono migliaia di artist* e la Biennale è costretta a rispondere alle loro obiezioni, prendendo quindi il movimento come un interlocutore credibile. Cosa fa ANGA? Organizza una raccolta fondi per finanziare il proseguo della campagna, uscendo quindi dalla rete ed entrando nella realtà, apre un padiglione Palestinese, organizza una mostra diffusa, comunica tramite manifesti, volantini, materiali spesso autoprodotti dagli aderenti. Persino organizza manifestazioni per la chiusura del Padiglione ed altrettanti eventi sono stati realizzati in varie parte del mondo in maniera autonoma. Ci sono 2 cose in particolare che ci hanno colpito: in primo luogo la mappa delle complicità, ovvero degli Stati che sono complici nel promuovere e sostenere l’aggressione israeliana. Questa è la rappresentazione precisa di una valutazione politica condivisa nelle discussioni, sia in rete che in presenza, e che analizza precisamente la rete di sostegni e le motivazioni che spingono alcuni Stati al supporto ad Israele, comprendendo la relativa importanza e la fragilità degli Stati Nazione nel Mercato. L’altro tema è la forma che prende l’adesione alla campagna, ovvero i lavori ad essa ispirati che via sono stati “donati” per sostenerla. Molti li potete trovare sulla loro pagina Instagram e certamente contraddicono la teoria dell’arte politica che non deve sembrarlo per risultare efficace. Tutti i lavori sono estremamente espliciti sul messaggio che si vuole diffondere, al di là anche della pratica artistica usuale del singolo artista. Il gradasso di ArTribune direbbe che somigliano a tazebao, ma è evidente che, in determinate circostanze, si sente l’esigenza di allontanarsi dalle forme suggerite dal sistema dell’arte incardinato nel Mercato, tanto da metterne in discussione il linguaggio e le forme consolidate. Ora, non è che vogliamo dire fate tutti così e siamo a posto. Però l’idea di poter discutere, se vogliamo deterritorializzare, il linguaggio codificato dal Mercato, attraverso la mediazione di curatori e gallerie che giustamente a quello pensano, anche a costo di essere criticati dalle riviste di settore, è secondo noi fondamentale nel tentativo di creare nuovi concetti.
Anche perché il linguaggio nel Mercato tende, per molti motivi, a semplificarsi. Se pensiamo al parlato, ad esempio, pur avendo una persona adulta un vocabolario attivo di 10.000/15.000 parole nel quotidiano ne utilizza 800/1000. Nell’arte non va diversamente e, se rimaniamo nell’ambito del linguaggio stabilito, anche la nostra capacità critica perderà di complessità e potenzialità. Rinunciare ad una fuoriuscita, comunque pensata o tentata, anche temporanea, dal linguaggio del Mercato, con tutto il rischio che questo comporta, significa restare, magari criticamente, nei territori felici descritti 30 anni fa da Fukuyama.

Padiglione Veditu/Veditu pavilion

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