Il viaggiatore incantato the enchanted pilgrim

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Iniziamo la pubblicazione di alcuni testi, scritti sull’esempio del Viaggio del Pellegrino, che hanno accompagnato, fatto da sfondo e anche seguito la produzione del nostro video e che hanno preso vita autonoma. Per lunghezza faremo una pubblicazione ad episodi che riprenderemo in un link nel loro complesso.

We begin the publication of texts , taking example of the Pilgrim’s travel , who has accompanied and followed the production of our video and have taken independent life.For their length we will a publication of episodes , which will resume in a link in their entirety.

see the demo on youtube

 

 

Primo Viaggio

La Grande strada è qualcosa che sembra

non avere mai fine; assomiglia a un sogno,

è la nostalgia dell’infinito

Dostoevskij

Non credi che la felicità ti farebbe bene Charlie Brown?

Non so, quali sono gli effetti collaterali?

Questi nostri viaggi sono percorsi nel dubbio. Se dovessimo fidarci di noi stessi, se fossimo certi delle nostre convinzioni, non ci saremmo incamminati. La nostra ricerca, infatti, in questo caso non può che essere fatta a piedi ed in sentieri che normalmente eviteremmo, per pudore o perché immaginiamo che ci riporterebbero alla strada principale, aggirandola inutilmente. Però stavolta andiamo dove cercano alcuni, pensando d’arrivare chissà dove. Spesso, appunto, tornando da dove sono partiti.

Il nostro dubbio è: esiste un luogo, un tempo, un corpo, una lingua fuori dal Mercato? Esiste un atto che abbia lo status di reale, un qualcosa che sia completo in sé, senza dover essere avvolto, penetrato dolcemente dal Mercato?

Non perché soffriamo dall’esservi immersi, di dialogare con i suoi canoni, ma perché abbiamo un piccolo dubbio. Il nostro viaggio cercherà di rinunciare sinceramente alla gioia automaticamente concessaci dal Mercato. Il “Viaggiatore incantato” è un romanzo di Leskov, di cui Benjamin, in un noto saggio, dice che il protagonista rappresenta “l’uomo che sa orientarsi nella terra senza impegnarsi a fondo in essa”. Quindi non fuggirla. Saperla trattare.

Nella storia ci sono decine di episodi che testimoniano la possibilità di decifrare, lottare ed infine cambiare leggi che sembravano naturali, obbligate. Ad esempio nel 1855 il buon Courbet venne escluso dal Salon col suo scandaloso L’atelier de Peintre e dunque fece costruire una struttura temporanea vicino all’esposizione ufficiale certificata dall’Accademia. Ci piazzò 44 dipinti e poi lo chiamò il Pavillon du realisme. Tante proteste ne nacquero che alla fine Napoleone III istituì, nello spazio più lontano del Salon, il Salon de Refuses (1863). I rifiutati alla fine svelarono la natura dell’Accademia e i suoi limiti, demistificandone l’autorità. Il loro salone divenne la vera esposizione, i suoi autori quelli che ancora ricordiamo.

Anche   più di  recente un altro Mercato faceva fluire il suo monologo . Eppure moltitudini decisero di organizzarsi per Resistere alle dittature che le calpestavano, coraggiosamente cercando la verità al di fuori di quella che, ancora, si poteva definire propaganda.

Ma ha senso ancora oggi porsi la questione del vero, di un reale da scoprire separandolo dallo sguardo complice del Mercato? Temiamo che se, come nella famosa favola, gridassimo il Re è nudo ci accorgeremmo in primo luogo della nostra nudità.

Partiamo nel nostro viaggio senza sapere dove andremo, pensando che ogni realtà, ogni luogo, per dirla con Baudelaire, ci assomiglieranno tanto. Andiamo cosi’, contraddittoriamente quanto è vitale la nevrosi che ancora ci abita, visto ci rimane questo dubbio sul Mercato e le sue conseguenze. Ogni paesaggio, temiamo, sarà incantato come i nostri “occhi insidiosi che brillano nel pianto”.

Perché il moderno, nella sua astrazione, è compiuto (forse). Non c’entra la modernizzazione storicamente data, anche i Papua o le tribù dell’Asia centrale, pur vivendo in modi arcaici, stanno immersi, con altre modalità, in una modernità che è comunque logicamente compiuta, nel mondo. Il tipo di vita che si conduce, la religione che si pratica non sono frontiere, le guerre, le sofferenze, le profuganze non sono altro. Diversamente dal passato “Il modello non si realizza come processo, ma come essenza e si offre come risultato” (Negri). Il Mercato, ovunque, ti sussurra ciò che vuoi o ti piega al Suo romanzo. Ha senso l’arroganza di pensare d’essere in grado di cercare un altro reale? E poi ci va?

Si va contro noi stessi. Dovremmo ribaltarci gli organi, violentare ogni nostra percezione, riconquistare inutilmente il dominio del nostro, a quel punto, povero piacere poiché l’accumulo d’astrattezza del capitale s’è ormai elevato a tal punto da rovesciarsi in ogni singolo corpo. Ci modifica costruendosi un suo rifugio, iniziando dalle protesi che interiorizzano la pratica fondamentale della storia dell’umanità, la costruzione di strumenti con cui cambiare il mondo.

Questa immanenza, contraltare languido dell’iper astrazione, è il segno piacevole del Mercato nel nostro corpo che accetta la mutazione. Il suo preciso incastro protesico col nostro corpo, ci convince che un’eventuale via di fuga non può essere negare il mondo nuovo in cui ci dibattiamo.

Perché rinnegare i nostri nuovi organi comuni connessi, le nuove determinazioni di senso che sono ormai innegabilmente in noi? Proprio in questa parte che unisce l’astrattezza tua, mia, del paesaggio ecc. può stare, invece, la via per una cooperazione alla fuga.

Ciò che appare chiaro è che semmai riusciremo in un viaggio fruttuoso ai confini del Mercato, di sicuro non potrà essere solitario. Sarebbe un ritorno nostalgico a visioni romantiche, pur ancora presenti, e un rifiuto della realtà che ci condannerebbe, già in partenza, al fallimento. Viaggeremo, quindi, senza rinunciare al Mercato, ma anche senza badarci troppo.

Secondo viaggio 

Molti sciamani battono il tamburo e cantano anche per il solo piacere, senza che tuttavia vi sia differenza quanto a ciò che a tali azioni si lega: salire in cielo o discendere gli inferi.

Mircea Eliade

Mi avviai verso casa

Erano gli ultimi istanti di quella che da allora in poi avrei chiamato

la mia vita precedente

Massimo Volume

Timothy e Silver sorridono. Ci guardano da sopra a sotto. L’immagine è abbacinante nella sua naturalezza. L’uno vestito solo con pantaloni bianchi. A cavalcioni su Silver. Sul manto bianco di Silver. Sullo sfondo una casa. Anch’essa bianca. Non sappiamo, o meglio non ci ricordiamo, che anno sia. Non è essenziale per questo “viaggio”. Prima o dopo il viaggio dei quattro di Liverpool in India non ha importanza.

Come non sappiamo se Pandit Pran Nath abbia mai incontrato Ravi Shankar.Pandit Pran Nath fuori dal Mercato, Pandit Ravi Shankar nel Mercato. Piace pensarla così. Ma è il Mercato a stabilire cosa è al di fuori di esso. Posto che non esiste nulla al di fuori del Mercato. “Ha senso l’arroganza di pensare d’essere in grado di cercare un altro reale? E poi ci va?” scrivevamo nel nostro primo viaggio. Ha senso l’arroganza di pretendere di essere fuori dal Mercato? Ha senso l’omericaὕβϱις di chi si scaglia contro il Mercato?

Come negli antichi poemi epici, chi pecca di ὕβϱις viene punito dagli dei per la sua tracotanza. Quale migliore supplizio per chi si dichiara fuori dal Mercato, contro il Mercato, antitetico al Mercato di essere accolto dolcemente, benignamente, con συμπάθεια dal Mercato stesso?

Esso è il daimon δεινῶς, terribile; terribile per la sua spietata benevolenza.

È il daimon del Mercato che presiede e regola questa realtà, “il canto è nato prima della parola parlata, la poesia è nata prima della prosa, la religione e l’arte sono nate prima della scienza” e il Mercato precede tutto ciò, esso è demiurgo e monade.

Esso è la risposta al quesito che ci pone Eleonora Brigliadori: “cosa sognerà di trovare al suo arrivo il viaggiatore intergalattico? Come possiamo gratificarlo e ringraziarlo, ricompensandolo almeno in parte del rischio affrontato nel tentativo di portare la nostra specie sempre più in alto oltre i nuovi limiti di conoscenza?”.

E quella ineluttabile fuga che abbiamo pennellato nella chiusa del nostro primo viaggio non potrebbe forse riassumersi in questo inintelligibile dialogo:

– Sei diventato un’entità?

– No. È solo che esistendo su un livello multiversale nel Tempo, siamo in grado d’allacciare le neurologie fino a formare una potente unità singolare?

Terzo viaggio

Non sapersi orientare in una città non significa molto.

Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa

come ci si smarrisce in una foresta.

W. Benjamin, Infanzia Berlinese

Shake that paranoia, can’t stop the rock

Shake that paranoia, can’t stop the rock…

you can’t shake that paranoia, come move me, move me…

Dancing like madonna into the groovy.

Apollo 440

 Aggirandoci nei nostri poveri luoghi, dell’infanzia, abbiamo trovato molti suggeritori che hanno voluto dirci del nostro viaggio, come trovare la strada, dove andare e quali sono i pericoli. In buona e cattiva fede molti, alla fine, cercano di traviare il Pellegrino, non sanno dove mandarlo oppure l’indirizzano volutamente male. Gira e rigira non è facile trovare il giusto Starec, che sappia consigliarti gentilmente dove andare, senza invidia e presunzione. Alla fine è difficile trovare chi t’indirizzi leggermente, sapendolo.

Oggi è ancora peggio, poiché non c’è un monte in cui il nostro starec possa stare isolato a togliere conoscenza a ciò che sa, a ridurre all’essenziale il suo pensiero contraffatto, ammaliato, ma pure contorto, dal sussurro provocatorio del Mercato.

Riprendiamo il sentiero, con lo stesso cammino, verso la stessa meta (Battiato).

Entriamo in una foresta, ma che sia oscura se no non ci serve. Dobbiamo abbandonare le nostre regole base, voltarci altrove rispetto al Bene-Padre-Sole-Capitale che ci è impossibile guardare come è impossibile sopportare ogni realtà senza mediazione. Però, sotto sotto, sono proprio loro, nudi, che vogliamo trovare sperando d’incrociarne lo sguardo senza esserne abbagliati. Abbandoniamo all’ingresso del bosco il nostro bagaglio di segni, le mediazioni tra noi e il Padre-Sole- ecc. poiché essi sono sicuramente scritti dalle nostre mani guidate dal Mercato. Non c’illudiamo d’esserne esclusi all’atto di tradurre il nostro pensiero in linguaggio. Oddio, potremmo certamente evitare il bosco restando nel soliloquio dell’anima, nelle praterie senza differenza, vuote. Ma noi entriamo, portandoci di nascosto dei segni, che ci sembrano un po’ meno segni.

Il nostro viaggio si riduce, alla fine, in un parricidio sofferto. Sappiamo bene che, come Don Chisciotte, non abbiamo molti consigli e molta saggezza da distribuire. Possiamo raccontare solo gli eventi che ci accadono, in una narrazione che non può comunque essere romanzo. Da molto sappiamo che proprio il romanzo è la forma autoconsolatoria d’espressione piacevole della borghesia. Cioè proprio la nostra carne, esposta al Mercato, che si compiace del dolore che le viene inferto in un ben salotto.

Entriamo nel deep web se volete. Nel mondo opposto al vostro, in cui non abbiamo voglia d’essere conosciuti. Non mettiamo nemmeno a disposizione i nostri dati, tanto è diverso l’ingresso. Lì non c’interessa essere noti, né lasciare traccia, ed anzi vogliamo evitare tracce e tracce di tracce. Noi parliamo solo con chi ci vuole conoscere concretamente, perché gli diamo qualcosa. E poi ci cancelliamo. Non abbiamo bisogno di inventarci come scalare i templi di Google, noi stiamo. Offriamo. Volendo, se  lo vogliamo, in quel mondo non ci conoscerai. Non ci pagherai: solo al primo livello, quello dei bambini che vanno su Tor, abbiamo delle nostre monete, comunque tracciabili. Ma superato il borsellino paterno, se vuoi fare qualcosa di serio, sappiamo noi come fare. Lo spazio nascosto, che Google non vede nè vuole esser visto, è il 96% di ciò che esiste, come la materia oscura,  mentre il resto sta nel tuo povero vivere. Noi essendo narriamo, non scriviamo nulla, magari a voce e di voce in voce. Non ci registri, devi ricordarci.

Ma se usciamo dal nostro caro Inferno, per tornare alle buone maniere, dimenticandoci le perversioni non declamate, smerciate, se può esserci un luogo, un posto in cui l’intera articolazione dell’essere, la sua molteplicità come la sua unità, si riflettano non può che stare nell’instabilità del logos (Gadamer), perchè è chiaro che se diciamo qualcosa, istantaneamente lo tradiamo con la complicità del Mercato. In quest’oscillazione lasciva sta la nostra speranza che esista un reale non mediato e allo stesso tempo comprensibile, esprimibile, pensabile. Se no son balle.

Pensiero-Logos-scrittura ci portano danzando in un sentiero rischioso, nascosto, pericoloso che noi allegramente eviteremo perché abbiamo ascoltato i racconti dei nostri predecessori, che pure hanno fallito, e noi non siamo certamente migliori. Le nostre tasche cariche di segni/non segni si riempono dell’ambiguità di quegli spazi che forse è meglio rimuovere, per quanto non sia facile con un sorriso, per bello che sia il nostro viso spaventato.

Se non si trova un percorso che ci faccia salire , ci butti là una corda, ci spieghi il varco nel percorso tra ente ed essere, che poi è sempre essere e non essere (ma non è questo il problema), allora possiamo pensare che in fondo bene e male siano tanto uguali da rimandarci nel web oscuro, che tanto valga prenderci segni e sensi e goderci il Mercato.

Ma di nuovo è il narrare, che ci salva dal segno, a riportarci al nostro obiettivo, a mirare quel punto forse esterno al mercato (forse no). Le fiabe, inaspettatamente, spontaneamente, ci ricordano come si può ricordare senza un nesso psicologico, senza costruire su ogni straordinario una gabbia del normale del Mercato. La fiaba d’altra parte ci ha già rasserenato contro altri miti, e non era un’idea per infanti, come oggi, ma il modo in cui l’umanità superava la paura, si riconciliava alla natura. Contro il romanzo, che pure ne è fratello, il narrare 1) prevede una memoria che sia tutta mia. Non la memoria offertami in dono dal mio cellulare, in ogni istante, ma decisa per me dal Mercato 2) prevede ci sia un pubblico annoiato. La noia, dice Benjamin, è premessa alla narrazione 3) sta nell’effimero. La memoria umana modifica, rimuove, costruisce il racconto verbale. Don Chisciotte, ma anche il buon protagonista di Big Fish, il film di Tim Burton,  lottano, o tentano di lottare con noi.  In Big fish, storie di una vita incredibile, il protagonista, in punto di morte, racconta le storie assurde e strampalate con cui ricostruisce la propria vita al figlio, che essendo dotato del buon senso comune, le trova stupide e superficiali. Vuole riportare il padre alla sana realtà, ma proprio in morte scoprirà la verità, non metaforica, leggendaria ma concreta, fisica di tutti i giganti, le streghe gli impossibili personaggi raccontati. Ciò che narriamo è più reale di quello che analizziamo, o comunque meno intriso d’irrealtà di ciò che vaglieremmo con gli strumenti che il Mercato ci dona.

Ma tutto questo non esce del tutto dall’ambiguità del reale. Torniamo alla partenza, ma non senza esperienza acquisita. Abbiamo ancora la possibilità d’essere annoiati? Ed essendo annoiati sapremmo, una volta abbandonate le viscere del Mercato nascosto, accogliere l’effimero, il segno meno segno, che passa solo dalla nostra parola oppure vorremmo fosse ricordato? Raccontiamo a chi ci aspettava all’inizio che non abbiamo saputo abbandonare del tutto il logos come protezione dal Padre-Bene-sole-Capitale, che ancora ragioniamo nel Mercato, ma che forse ora sapremo dire meglio la nostra storia. E, dunque, aggirandoci nei nostri poveri luoghi….

Quarto e quindo viaggio

Il fine del nuovo

Forse con più timore pronunciate voi la sentenza contro di me,

di quanto ne provi io a riceverla

Giordano Bruno

Assisteremo, in questi secondi momenti,

alla nostra personalità

Giovanni Trapattoni (Italia-Spagna)

Se questo nostro testo fosse un viaggio, lo sarebbe con la semplicità e l’ inconsapevolezza in cui in 1Q84, il romanzo di Murakami Haruki, si passa da un mondo all’altro. Più che romanzo, una narrazione. Riteniamo, infatti, che, tra i due, la narrazione sia più discreta , cerca di scomparire dopo essere stata pronunciata, non vuole eternarsi come il romanzo. Come dice W.Benjamin “da un lato il senso della vita, dall’altro la morale della storia”. Così noi racconteremo il meraviglioso incontrato nel nostro cammino, non la sua base psicologica o la sua spiegazione scientifica, che lo riporterebbero nell’opaco dei dettami del Bene/Padre/Sole/Capitale, da cui invece tenteremo di allontanarci per evitare che il nostro parlare ci riporti ai consueti rapporti di forza donati dal Mercato nel quale viviamo.

Dunque, in 1Q84 Aomame, una dei protagonisti, si ritrova un giorno del tutto casualmente bloccata dal traffico in un’autostrada di Tokyo. Il Taxista, incredibilmente, vista la sua fretta (ha appena ucciso un uomo che se lo meritava) le consiglia di scendere attraverso una scaletta di servizio dal ponte su cui si trovano per raggiungere una via più libera. Eppure alla fine della scala, superati alcuni ostacoli, Aomame si troverà in un altro mondo, individuato da piccoli segni. Ci sono due lune, un cartello pubblicitario messo al contrario, ma soprattutto cambiano le forze in campo. Cioè a regolare questo strano Giappone stanno i Little people, con tanto di setta a cui parlano silenziosamente, e la forza a loro antagonista. Nessuna delle due può essere chiamata bene o male, s’affrontano in mille episodi che sono percepiti solo da chi ne sia consapevole. Il nostro ambiguo viaggio per prendere le distanze dal B/P/S/C , lontano dai suoi significanti amministrati dal Mercato non può che essere così, leggero e casuale. Già ad affrontare delle prove ritorneremmo sotto il suo cappello, ci sforzeremmo d’affrontarli, riportandoli con noi. Riempiendo, di nuovo, il nostro inconscio ormai necessariamente vuoto, o meglio appaltato, d’un linguaggio che non è il nostro. Risaliremmo la scalinata attraverso catene di desiderio, senza abbandonarci al nuovo piacere.

I primi scalini che scendiamo, invece, sono alcune parole (Parole) imprescindibili anni fa. Non per chi s’occupasse di motori trifase, ma se qualcuno s’aggirava nell’ambito dell’arte, nelle periferie, si sarebbe sicuramente scontrato con Paradossale, Contemporaneo, Storicizzato, Surreale. Un pessimo gin tonic poteva essere paradossale, storicizzato era un modo per eliminare un artista dalla discussione. Chiunque fosse. La gergalità come accesso scomposto ad una comunità. Ma la ripetizione ossessiva non produce un significante e difatti il primo scalino era spesso proprio un gin tonic. In questo 2K16 ci permettiamo un’operazione che in quell’altro mondo sarebbe stata tacciata come Storicizzata, citando Salvatore Settis che parla di cultura classica : “Meno sappiamo il greco e il latino, meno leggiamo quella letteratura, e più parliamo di greci e romani, ma in modo sempre più sclerotizzato, convenzionale, morto”. Cioè, paradossalmente (Dio ci perdoni) più svuotiamo ciò che citiamo, che diciamo, di senso, più lo mettiamo, confusamente, sopra un piedistallo che diremo universale (Universale).

Scalino dopo scalino, forse astiosamente, sentendo che i conti non tornano, e che anzi proprio nel mantra vuoto del ripetere questi termini sta l’insinuarsi spiacevole nei nostri corpi del Verbo che stava in principio (l’auto elogiarsi del Mercato), del P/S/B/C, entriamo nel mondo dell’Altro. L’Altro ci porta all’oggi, qualche oggi. Onde di Altro, qualunque esso sia: lo Straniero, l’Animale, ciò che riconosciamo come portatore di diversità. Che perdoniamo, dicendo che la sua diversità è una ricchezza, ma al contempo ci mettiamo a tirar su un muro tra Io/Noi e Lui/Lei. In fondo John Stuart Mill, nel 1859, aveva voluto arrivare fino alla battaglia di Maratona per fondare una cultura europea omogenea (Maratona più importante di Hastings per gli inglesi) da opporre agli orribili persiani, ovvero all’Oriente, anch’esso omogeneo e di per sé minaccioso.

Ripetere forme sempre uguali, sempre meno piene di senso, significa riempirle d’una valenza universale e violenta, nel momento in cui tale indifferenza al totale materialismo del Mercato porta alla nostalgia di ideologie già scomparse. Tale completa immanenza, come scrivevamo altrove (www.veditu.blogspot.it), è il contraltare del livello d’astrazione raggiunto del Mercato che oggi si dà come risultato, non come processo. Cioè possiamo riconoscerne la compiutezza anche prescindendo dal livello di modernità che un determinato luogo, nel mondo, ha raggiunto. Usare un linguaggio fatto di universali, di segni pesanti, per quanto vuoti, ci impedisce di conoscere e di conoscerci, di rilevare la nostra mutazione verso un corpo svuotantesi a favore di corpi condivisi sulle piattaforme del Mercato. Continuare a romanzare la realtà ci porta direttamente dalla condivisione, desiderante, dai nostri nuovi organi, dal riconoscere la potenzialità dell’essere felicemente modificati al triste finale del 900. E’ violenza che rimanda a violenza, pure presente nel lato oscuro del mercato, nei luoghi in cui non esistono nemmeno tracce dei nostri atti, semmai ne esista la possibilità.

D’altra parte ad un certo punto Francis Fukuiama stabilì La fine della storia (1992), cioè che la fine dei contrasti ideologici, il livello di sviluppo raggiunto ponevano l’impossibilità del cambiamento rispetto al migliore dei mondi possibili. Ma pose anche la prospettiva dello scontro di civiltà.

Per permetterci di essere abitati dall’intenzione degli altri e contestualmente abitarli, nella mediazione offerta dal mercato, l’Altro, l’Io, il non Io, la Fine, la Storia ecc. vanno rimossi con leggerezza, attraverso un approccio discreto che usi dei segni un po’ meno segni. Il nostro non è un viaggio tra fortezze e villaggi, paesaggi e strade, ma tra i mondi aperti che ognuno di noi può facilmente penetrare. La Fine del Nuovo apre alla novità, la scomparsa dell’Altro richiama gli altri, accolti nel senso dell’arrivante di Derridà (L’arrivante è colui che viene senza essere invitato, senza che lo si aspetti,…, che mette in questione ogni precostrutto ed è questa destabilizzazione, seppur traumatica, ciò che avvia un processo di rovesciamento dell’uno nell’altro ), la Storia può lasciare lo spazio alle storie.

Alla fine della scala di 1Q84 troviamo l’Abramovich con la performance The artist is present. Sappiamo bene come è andata: 3 mesi seduta al Moma a guardare negli occhi chi, citiamola “di fronte a me volesse mettersi in gioco. E’ stato un fluire continuo di emozioni tra due persone, uno svuotarsi e un riempirsi di continuo”. Ad un certo punto Ulay, l’artista e suo ex compagno, partecipa alla performance e, in un momento di grande intensità, Marina piange e gli porge le mani. Nel frattempo, nel resto del museo, giovani artisti riproducono i suoi lavori più noti. Tutto molto intenso, molto partecipato, tutto ciò che capitava al Moma era descritto a lettere maiuscole. L’Abramovich ci porge, però, anche il video dell’esperienza, che è tanto performance quanto la sua presenza al museo. E lì riprendiamo l’approccio discreto. Per poterci comunicare quell’evento, deve ridurne il peso simbolico. Vediamo così come, per poter farsi interpretare dai giovani artisti, nell’imitazione mimetica delle sue azioni del secolo scorso, affinché possano essere credibili, Marina capisce che deve sottrarli al Mercato, cercare di rimuovere, di far dimenticare, la loro mutazione. E li porta, difatti, in un’isolata campagna, immersi nella natura. Ma scopriamo anche che il buon Ulay faceva parte della combriccola e che, quindi, non proprio casualmente o insospettatamente, passava quel giorno di là. O ancora che tutta la tensione di The artist is present poteva scemare visto che a un certo punto Marina voleva farsi fare a pezzi da un mago professionista. Chi l’ha evitato? Naturalmente il suo agente.

E di questo proprio abbiamo necessità per completare il nostro viaggio, d’uno zaino leggero. Per parlare di Altro, di Storia ecc., nel contemporaneo devi crederti quantomeno rappresentante di Dio in terra, il che non prevede proprio un piccolo ego, ma un bagaglio così forte di convinzioni che il prossimo tuo puoi persino amarlo tanto quanto te stesso, ma non gli permetterai mai di entrare in te.

Per ritornare al mondo con una sola luna, riprendiamo la scaletta che avevamo disceso, abbandonando delle parole, rinunciando, ad esempio, all’Infinito di Leopardi ma portandoci dietro le sue note a margine: e dajie con la morte, non fa mai male commuovere (Carmelo Bene , Phonè e delirio) che saranno i nostri nuovi gradini. Ma questa è un’altra Storia.

Di nuovo? La fine

Quel che fin’ora mi ha fatto

soffrire e d’aver rifiutato il vuoto

A. Artaud – Nuove rivelazioni sull’essere

Sappi che non finirà tanto presto,

e che non sentirai piacere.

300

In questo nostro viaggio arriviamo dove finisce la mappa. Sul confine (non Margine che è abusato) tra le cose che pensiamo un po’ di sapere, che ci portiamo dietro discretamente, e quelle su cui alla fine non possiamo che azzardare. Teniamo prudentemente un piede al di qua e uno al di là, anche se questo Confine, in sé, ci pare troppo caricato di senso dai secoli trascorsi. Forse è meglio dire che affrontiamo un soggettile, nel senso di Artaud, che è qualsiasi cosa, tutto e il resto, ciò che è senza esserlo (Derridà). Senza voler esserlo diremmo noi.

E proprio qui ci chiediamo sommessamente: esiste ancora una tensione tra il Corpo, tra i corpi, e l’organizzazione dei rapporti sociali? In fondo molti di noi sono giunti fin qua seguendo una linea che ancora s’orientava in base ad un corpo che si poneva come ultimo baluardo irriducibile, che in qualche modo si ribellava alle imposizioni dell’organizzazione umana che voleva uniformarlo.

Una via aperta da Platone, su su fino al Beato Angelico del Cristo incoronato di spine (1450) arrivando a Bruce Nauman. Il corpo che esibisce le sue ferite, compreso eppure distaccato dal racconto del Mercato, dei mercati. Pensiamo al Beato Angelico. Il suo Cristo è sì in posa iconica, frontale, immobile, eternabile, ma porta su di sé ferite umanissime che grondano sangue copioso e addolorato, i suoi occhi sono rossi di sofferenza. Insomma i suoi liquidi corporei si ribellano a tutta questa eternità, a tutta questo divino che gli viene fornito dalla sua posa. Le nostre ultime guide su questo sentiero potrebbero essere Bruce Nauman, Vito Acconci, Gina Pane una volta che abbiamo voltato le spalle all’ azionismo viennese. Ci si ferisce, dunque, si fa penitenza oppure il suo opposto, si rinuncia al cibo, ci si taglia, si sparge il sangue, usiamo lame e lamette, si rendono visibili sulla nostra carne esplicitamente le oppressioni, le nevrosi, i tabù imposti dalle società. Ma chi ci accoglie, sornione, è Ron Athley, che nella serie delle sue foto del 2000, si dispone languidamente coperto di siringhe su un bel broccato, la luce certamente è quella giusta.

Prendiamo un attimo queste cartoline per riflettere sul nostro viaggio. Mettiamo in fila il Cristo, l’Azione sentimentale di Gina Pane e le foto di Athley. E’ evidente solo a noi come il corpo, svuotato dagli organi, progressivamente si ritrovi raccontato bellamente dal Mercato? Il sangue non sembra più sangue, gli occhi sono straordinariamente bianchi. Alla fine, ironicamente, sesso e malattia, desideri e oppressioni, dolore e nevrosi, elettroshock e droghe sono ormai tanto agiti dal Mercato da lasciare in noi infinitesimi segnali che indirizzano naturalmente la nostra mutazione.

Trovandoci di fronte ad un’esperienza vintage come Orlan non proviamo nessuna emozione né curiosità. Le protesi rimaste sulla sua fronte c’interessano, ma non solo a noi, meno della fila all’angolo del vino del buffet. Il Mercato, già da tempo, non espelle più ciò che riceve da fuori, gli scarti e i rifiuti che cercano di gettarsi contro il Sistema. Per non dargli ragione ha tolto la maiuscola al sistema e non li fa più uscire dal suo corpo. Se esiste un suo confine va indagato senza rifiuto, guardando semmai a noi stessi che ne facciamo parte. La controcultura vende abbastanza bene.

E difatti siamo abituati a dare consistenza granitica ai significanti, che invece sono entità bizzarre, che continuano a muoversi diventando altro da sé. Il famoso Corpo senza organi s’è realizzato ormai, ma in un senso diverso da come immaginato. Poiché la riorganizzazione dell’organismo imperfetto, la restituzione del corpo, passa attraverso la condivisione universale degli organi stessi attraverso il Mercato, che a differenza di Dio, non ha volontà. I nostri vuoti si muovono tra i significanti attraverso desideri che non sono più nostri, o imposti da un’autorità, ma condivisi, e solo così ne stabilizziamo l’impazzimento costruendoci sguardi sul mondo, sui mondi.

Ma se i corpi sono in comunione, se i nostri nuovi organi stanno assieme attraverso il reciproco, condiviso, desiderio che lambiscie la nostra povera sensualità, lo scambiarsi pubblicamente strizzate d’occhio complici, ha ancora senso mettersi a fare performance? D’altra parte, come nel porno, ridimensioniamo nel tempo la funzione del pubblico. Da spettatore, più o meno consapevole, che stà a guardare gioiosamente il sangue del performer che cola, si becca una ottima schizzata di sperma, partecipa, infine, sorpreso al ribaltarsi dell’interno con l’esterno, al pubblicizzarsi del nostro intimo, si ritrova ad essere espulso dalla scena. Se pensiamo alla sequenza temporale, ai pavimenti sempre più luccicanti del povero Franko B, corrispondenti peraltro al suo ingrassare, vediamo che la folla osannante di passo in passo diviene attrice, si mette là con la giusta espressione stupita, affranta, spaventata in base a un copione scritto a posteriori attraverso la scelta delle foto.

Tra l’atto, semmai c’è, e la decisione della sua rappresentazione pubblica (acquisito il pubblico) sta la mediazione fruttuosa del Mercato che rimuove ogni termine marcato, (secondo Derridà), ogni dominante, per rendere ogni opposizione, ogni durezza, adatta alla generalità.

Prendiamo il termine più marcato, più pesante di significato: la Morte (Le morti). In fondo tutto questo nostro pellegrinare inizia con una morte, che ci ha messo in cammino. Un anno fa è morta all’improvviso una povera giovane ragazza. Il giornale locale, per giorni e giorni, ha pubblicato una sua foto tratta da Facebook. Un volto deforme, lisciato e modificato da qualche povera app gratuita, messo al pari dei pupazzetti che si possono comprare in autostrada, bello come l’alieno di Cocoon. Nessuno s’è preoccupato di tale rivoluzione del corpo, l’abbiamo presa come fosse effettivamente così, nella sua mostruosità accettabile. Di più: lo stesso giornale ad un erto punto ha iniziato a pubblicare le foto vere della ragazza, affiancate da quelle FB. Lei con la madre, Lei da sola e Lei modificata da qualche app . Di nuovo nessuno, nella giustapposizione di lei e della sua immagine mercantile, ha avuto dubbi, nessuno ha contestato che quelle due immagini totalmente diverse potessero raccontare lo stesso volto. E dunque anche in morte il nostro corpo e quello donatoci dalla mutazione voluta dal Mercato coincidono. Per legare realtà e linguaggio bisogna lottare, si diceva, oppure evidentemente farsi sopraffare dal possibile fraintendimento dei due, nell’esplicito voler dire che si crede di poter recuperare come possibilità del logos.

Per cui non è più vero che se c’è una cosa 1 e una 2, di sicuro sappiamo che l’1 non è il 2 e viceversa. Nel mercato vivo o morto, volto e maschera, 1 e 2 sono uguali. La catena dei significanti s’attorciglia mossa dalle ignude mani del Mercato e, alla fine, bisogna rinunciare a sentire parole che diciamo umane, udendo invece parole nuove, che parlano gocciole e foglie lontane (O Ermione) dei nostri corpi che si fondono in uno/molteplice. Ora si possono leggere ironicamente molte profezie, svuotandole. Forse aveva ragione Artaud, niente di meglio che rifiutare la genitorialità con l’auto castrazione.

D’altra parte da cosa inizia l’arte?

Dal fare smorfie, dal renderci maschera per gli altri senza proferire parola. La maschera mortuaria è il nostro primo volto rappresentato ma non perfettamente aderente poiché nell’interstizio tra noi e la maschera vivono i rapporti sociali in cui siamo stati immersi in vita.

1938, Marcel Mauss: la maschera è la persona sociale.; 1960, Claude Levi- Strauss “c’è un’incredibile diversità nelle maschere: il loro significato è inscindibilmente legato a un culto locale”.

Dalle caverne ad oggi il volto è ancora in cerca di se stesso. La nostra ragazza, noi stessi, siamo tutti figli/e di Grace the Dummy, il famoso manichino che prese la prima pagina di Life nel 1937, appropriandosi del piacere, motivandolo con il suo essere un po’ plastica un po’ carne.

Il nostro essere un corpo senza organi, senza aspetto definito, nell’assenza di giudizio, s’addolora per se stesso attendendo i giudizi non ancora dati. In una morte che non c’è, poiché impensabile, in un Dio che non esiste più, essendo la nostra comune nascita e crescita priva di Volontà, in una permanenza che c’è permessa dalla crisi, i nostri oggetti ereditati, viventi, i nostri organi donati, non ci resta che danzare su un vuoto che è nostro e del Mercato. Scriviamo attorno al nulla, godendoci pienamente la strada, odiando ogni scaramuccia che ci vuole irretire, fermare. Alla fine ci sembra che Nusra Latif Qureshi col suo Did You Come Here to Find History, esposto alla Biennale di Venezia del 2009 ci rappresenti. 9 metri di pellicola trasparente di stampe digitali con sovrapposte la foto del suo passaporto a quelle di una ventina di volti di sovrani dell’impero Moghul. L’orientalismo, il rispetto dell’Altro che ne prevede la soggezione, le identità rigidamente separate sono qui messe in discussione. Eppure quante resistenze a quest’ovvietà, quanto romanticismo che s’illude d’essere unico.

“Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca, sei la canticchiante e danzante merda del mondo! “ (Fight Club). Ovvero devi essere felice, come noi.

DIRITTO ALL’ARTE

Vedi tu è un collettivo nato nel duemilaundici e ad assetto variabile. La prima cosa che abbiamo fatto è stato scrivere, e far conoscere, il Manifesto per l’arte commerciale. Lo intendevamo come una provocazione, avendo  ripreso e capovolto tutto quello che sentivamo dire, e che noi stessi dicevamo, nel ristretto mondo degli artisti. Abbiamo quindi definito la nostra gioia di stare nel Mercato e  la nostra accettazione dei suoi linguaggi e delle sue regole, riconoscendo invece la ricerca come la scusa preferita di chi nel mercato non riesce ad entrare. Pensavamo, sogghignando, che avremmo fatto arrabbiare qualcuno o che, al massimo, saremmo stati ignorati. Mai avremmo immaginato che, invece, il nostro manifesto sarebbe diventato per molti un motivo di liberazione, di soddisfazione, che esprimesse qualcosa che veniva pensato ma non detto. Alla fine della nostra fallita provocazione abbiamo avuto un centinaio d’ adesioni, s’è creato un bel dibattito e addirittura un’importante galleria ci ha proposto di collaborare.

Da questa sorpresa è nato il nostro percorso successivo, perchè abbiamo pensato che  non avevamo capito granchè del mondo dell’arte che, pure,  frequentavamo, e forse nemmeno del mondo in generale. Abbiamo prodotto qualche lavoro, visto che, all’epoca  alla famosa galleria non avevamo niente da mandare, e scritto un po’ cercando d’esplorare il mercato, i modi in cui ne siamo pervasi,  come ci cambia. Esplorazioni nel vero senso del termine, avendo trasformato i nostri testi in racconti di viaggio, fondati su scritti come il Viaggiatore incantato di Leskov o i famosi Racconti di un pellegrino. Tutte narrazioni perchè, come scrive Benjamin nel saggio sul romanzo, ci pare proprio la fiaba uno dei modi più adatti ad interpretare il mondo e magari allontanare alcune nostre paure.

Il nostro contributo al catalogo della mostra sta in questo percorso, anche se, per noi, la fine del nuovo ha un valore positivo. Non abbiamo, infatti, nostalgia del secolo scorso, non inseguiamo nuovi realismi, accogliamo di buon occhio il tramonto del padre. La fine del nuovo apre alla novità, la scomparsa dell’altro,  richiama gli altri, la fine della storia ci apre alle storie.

L’utilizzo  di segni meno pesanti, di segni meno segni, è un modo per non rimuovere ingenuamente il Mercato che ci abita con le modifiche che porta nel nostro vivere, nel nostro corpo, nel nostro desiderio, nel modo in cui abbandoniamo le grandi narrazioni per un piacere frequente eppure fragile. In questo fluire del mercato sta forse la possibilità   dell’arrivante nel senso di Derridà, ovvero  colui che viene senza essere invitato, senza che lo si aspetti, che mette in questione ogni precostrutto e che permette quella  destabilizzazione, seppur traumatica, che ci sembra l’unico modo per una cooperazione vera e possibile, offerta dal Mercato.

Viste le esigenze di sintesi, per un maggiore approfondimento della questione rimandiamo ad altri  testi, che trovate sul nostro sito.

Ma se questa è la nostra condizione quali sono, se ci sono, i nostri nuovi diritti? Riprendiamo una discussione nata in Francia qualche anno fa, quando un ministro propose d’abolire l’insegnamento della filosofia, non ritenendo avesse una specificità tale da distinguerla dalla letteratura o dalla storia. Ci si chiese, con un ampio dibattito, se esisteva un diritto alla filosofia. E noi ci chiediamo:  esiste un diritto all’arte?

Andare diritto all’arte non è questione che si può risolvere in poco tempo. Chiederci, di nuovo, che cosa sia l’Arte, sarebbe probabilmente uno sforzo inutile se non dannoso. Sarebbe già di per sé abbandonare l’approccio discreto che abbiamo detto ci sembra necessario per comprendere il contemporaneo e ricadere nella tentazione di mettere una maiuscola all’arte, ritornando ai tempi delle parole pesanti. Certo è, però, che se vogliamo parlare di un diritto in qualche modo dobbiamo identificarlo, come qualunque prodotto. I diritti, in generale, perchè abbiano qualche riconoscibilità, devono essere accolti da delle convenzioni stabilite, magari avvallate da qualche istituzione. Nella storia ci sono  numerosi episodi di questo processo. Ad esempio nel 1855 il buon Curbé venne escluso dal Salon e dunque fece costruire una struttura temporanea vicino all’esposizione ufficiale certificata dall’Accademia. Ci piazzò 44 dipinti e poi lo chiamò il padiglione del realismo. Tante proteste ne nacquero che alla fine Napoleone terzo istituì, nello spazio più lontano del Salon, il Salone dei rifiutati (1863). I rifiutati alla fine svelarono la natura dell’Accademia e i suoi limiti, demistificandone l’autorità.  Dunque istituzioni che si sviluppano, vengono contestate e sostituite. Convenzioni che seguono lo stesso percorso.

Cos’è una convenzione? Per capirci ecco un esempio retrò: le buone maniere. Se incontriamo un conoscente diciamo “ Piacere di vederla, come stà oggi?” E’ evidente che non intendiamo chiederlo seriamente, anzi se la nostra controparte sospettasse che il nostro interesse è sincero probabilmente rimarrebbe spiacevolmente sorpresa, poiché sarebbe una domanda troppo intima. Parafrasando froid, col buon Slavoj Z, “perchè mi stai dicendo che sei lieto di vedermi, quando sei davvero lieto di vedermi?”. Allo stesso tempo, però, non stiamo in una totale ipocrisia, poichè proprio così stabiliamo un patto tra noi, come molti altri. Una convenzione appunto, che ci fa stare meglio, che regola la decisione sull’auto che compriamo, sull’artista che ospitiamo, sul film che vediamo. Anche fare tutto il contrario significa riconoscere la convenzione ma ribellarvisi. Accettare l’istituzione che la legittima e cercare di svincolarsi, nei limiti che il Mercato benevolmente ci lascia.

Ma oggi chi, effettivamente, può circoscrivere quello di cui abbiamo diritto?  Ad esempio se noi oggi siamo in una galleria, c’è un curatore, basta a riconoscere siamo circondati da opere d’arte? Oppure è più interessante sapere quali di queste opere saranno vendute, avranno un mercato? Ci sa che se lo chiedessimo ai cento sostenitori del nostro manifesto direbbero qualcosa d’interessante vista la stanchezza che hanno dimostrato per i circuiti dell’arte fuori dal mercato. Il povero Ai WeiWei ci dice che tutto è arte. E noi concordiamo con lui.  Ma come fa il Tutto ad essere un diritto? Probabilmente intende un tutto minuscolo, il tutto che passa dalle sue mani, che si sottopone al trattamento di un’artista. Dovremmo chiederci, dunque, se l’arte è il tutto mediato dall’artista, chi è un artista? Come riconoscerlo come fonte legittimante? Anche questa è una domanda poco sensata, oggi. Il buon Cattelan sostiene che un’opera è arte solo se dura nel tempo. Altrimenti è merciandaising. Allora potremmo prendere il tempo come metro? E’ un po’ contraddittorio con l’idea di contemporaneo. Quanto tempo? Un anno, una generazione, un secolo? Fra 50 anni, ci ricorderemo del suo vater d’oro o delle saponette che ha prodotto? Quale delle 2 è arte? Anche qui, ci sa, il sottinteso è che il caro cattelan ritiene che proprio le sue, di opere, saranno ricordate, in quanto vero artista. E torniamo così, circolarmente, al punto di partenza.

Non sono, le nostre,  domande leziose. Perchè poi, se l’arte fa parte dei nostri diritti, ci sono delle conseguenze. Per quanto spesso inesigibili, i diritti dovrebbero essere universali. E allora ci permettiamo di fare un deturnament di un piccolo pezzo di un testo, sempre di derridà, sostituendo arte a filosofia. “Chi ha diritto all’arte oggi, nella nostra società? A quale arte? A quali condizioni? In quale spazio privato o pubblico? Quali i luoghi d’insegnamento, di ricerca, di esposizione, di lettura, di discussione?”. Anche perchè, visto che l’abilità tecnica in molte forme d’arte va messa ormai in secondo piano, la democraticità della figura dell’artista è ormai pienamente realizzata.

Tanto diffusa e frammentata è la pratica artistica che forse oggi, in assenza delle grandi idee, ormai superate, più che una storia dell’arte, più che un curatore che studia la materia, sarebbe opportuno un archivio. Senza commenti particolari. Cioè, tirando le somme, se l’unico modo vero di cooperazione passa dal mercato, se tutto è arte, se tutti siamo artisti (poiché questa è la conseguenza immediata) allora sono finite le sovrastrutture. Archiviamo, giustapponiamo ciò che è detto arte. D’altra parte prendiamo in mano un qualunque libro di un grande curatore. Avremo probabilmente un elenco di immagini e di esperienze, d’ intuizioni e performance l’uno seguente all’altro, non organizzazione di racconti (ad esempio: Bonami, Dal Partenone al Panetttone).

Un diritto così ambiguo può essere sostenuto? Ha senso continuare l’insegnamento dell’arte a scuola, ha senso che il pubblico finanzi le esposizioni dell’arte contemporanea?

E’ un dubbio che ci riporta alla questione del nostro manifesto. Poiché senza dei confini definibili, in questo racconto che cambia protagonisti e salta da una storia all’altra, il rischio è di creare delle strane sacche che pensano di fuoriuscire dal mercato. Strani luoghi in cui il lavoro non viene pagato, perchè s’accontenta di farsi vedere. Recinti da cui non si esce, felici d’essere esposti, rinunciando alla possibilità d’entrare nel mercato, accettando però di restare afoni rispetto alla generalità delle persone.

Esiste un diritto all’arte? Se si, certamente non può essere esterno al mercato. Se no, certamente non può essere esterno al mercato.

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